Perché Facebook è finita nel mirino dell’antitrust americano

SmartWorld team
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Perché Facebook è finita nel mirino dell’antitrust americano

La recente vittoria di Facebook ai danni dell’antitrust americano accende nuovamente i riflettori su uno dei grandi temi dell’attualità: l’inefficacia dell’impianto normativo statunitense dedicato alla disciplina della libera concorrenza e del divieto di pratiche monopolistiche. Una struttura apparsa in effetti ormai troppo anacronistica, densa di paradossi e di contraddizioni che la rendono inconciliabile con le importanti questioni messe invece in evidenza dall’industria tecnologica.

L’argomento è molto simile a quello che interessò diversi anni fa i giganti dell’industria petrolifera, come pure identico è l’approccio al problema: limitare lo strapotere di mercato delle società (oggi le Big Tech), “spezzettando” il loro raggio d’azione attraverso rigorosi divieti di grandi fusioni e stringenti requisiti di interoperatività sui quali sta iniziando a ragionare il legislatore statunitense. Cambiano insomma gli attori (rappresentati nel contesto odierno dai colossi del web, e Facebook è inevitabilmente parte integrante di questi), ma non i metodi e i potenziali rimedi.

Su questa base trovano così giustificazione le due cause portate avanti ai danni del sodalizio rappresentato da Mark Zuckerberg, trasformatesi in altrettante sonore vittorie per la compagine americana, di cui una peraltro definitiva.

Le due cause antitrust contro Facebook

Il pronunciamento del magistrato James Boasberg ha respinto le accuse di pratiche anti-concorrenziali a cui Facebook era stata chiamata a rispondere: l’una era stata avanzata direttamente dal governo federale, per il tramite della Federal Trade Commission (l’authority antitrust USA), l’altra da una coalizione composta da 46 Stati americani. Peraltro, la seconda mirava addirittura ad invalidare le acquisizioni di Instagram e di WhatsApp operate da Facebook rispettivamente nel 2012 e 2014: a giudizio dell’accusa, tali operatori avrebbero infatti contribuito ad ingrossare la posizione dominante della società di Zuckerberg. Di analogo avviso anche il primo ricorso: l’atteggiamento anti-concorrenziale di Facebook non soltanto provocherebbe una minor scelta da parte dei consumatori, ma soprattutto avrebbe come effetto quello di far concentrare nelle mani della stessa azienda americana una quantità a dir poco mastodontica di dati personali, richiamando dunque anche questioni sottese alla privacy.

Il procedimento si è concluso con una articolata sentenza di cinquantatré pagine che può essere riassunta in poche battute: dall’incartamento presentato dagli attori, non emergono prove sufficienti atte a sostenere la posizione monopolistica e anti-concorrenziale assunta da Facebook in questi anni. Ancor più drastica è la conclusione sull’operazione di acquisto approntata dal gigante capitanato da Mark Zuckerberg: le presunte violazioni risalirebbero a fatti verificatisi ormai troppi anni addietro, facendo di conseguenza venir meno i limiti temporali entro i quali è possibile intentare azioni giudiziarie di questo tipo.

Dal suo canto, la società americana aveva impostato le proprie difese facendo leva su due argomentazioni: da un lato, la presenza sul mercato di svariate piattaforme concorrenti (citando in particolare TikTok), dall’altro l’indimostrabilità del pregiudizio arrecato da Facebook ai consumatori, specie se si guarda alla gratuità dei suoi servizi.

Da qui il rigetto dei due ricorsi, con il secondo – quello, cioè, legato all’acquisizione di Instagram e WhatsApp – peraltro insuscettibile di appello e perciò definitivo.

La vittoria di Facebook in tribunale ha avuto un peso specifico che va oltre la mera giuridicità: dopo la pubblicazione della sentenza, il valore di borsa dell’azienda americana ha infatti superato per la prima volta 1 trilione di dollari ed entrando nella risicatissima élite che può fregiarsi di un simile traguardo (Apple, Microsoft, Amazon e Alphabet, ossia la capogruppo di Google).

Gli scenari futuri

La Federal Trade Commission ha 30 giorni di tempo per appellarsi (il termine ultimo coincide con la giornata del 29 luglio) e sono già diverse le personalità politiche che spingono per continuare la battaglia legale contro Facebook: in una lettera indirizzata a Lina Khan (capo della FTC statunitense dopo la recente nomina ricevuta dal Presidente Joe Biden) e pubblicata venerdì scorso da Reuters, la senatrice Amy Klobuchar e il membro della Camera dei Rappresentanti del Colorado, Ken Buch – figure appartenenti rispettivamente al Partito Democratico e e Repubblicano – avrebbero esortato l’authority antitrust americana a proseguire azioni esecutive ai danni del social network di Mark Zuckerberg.

Per Lina Khan si tratterà dunque del primo importante impegno dopo il mandato incassato dall’amministrazione Biden, intenzionata ad arginare lo strapotere delle Big Tech. E la giurista trentaduenne, già insegnante di diritto alla Columbia Law School, pare esser la figura ideale per un importante cambio di rotta, anche in ragione delle sue posizioni apertamente critiche verso l’atteggiamento monopolistico dei giganti della tecnologia. Una sfida che si preannuncia difficile quantomeno nell’immediato, complice i risicati tempi per ribaltare il recente pronunciamento della Corte distrettuale di Washington D.C. Nell’intermezzo, la necessità di riformulare l’attuale impianto normativo delle leggi antitrust americane, troppo ancorate alla tradizionale logica della manipolazione dei prezzi e perciò inadeguate rispetto al tema dell’abuso monopolistico delle Big Tech.

L’oggetto del contendere verte tutto sulla parola “monopolio”, poco avvezza – almeno per come è stata definita dalla legislazione americana – a dimostrare l’atteggiamento anti-concorrenziale assunto da Facebook e, più in generale, dalle Big Tech.

Non sorprende, in quest’ottica, il pacchetto di sei provvedimenti sul quale sta lavorando la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, mentre Joe Biden – stando ad alcune fonti raccolte da Reuters – starebbe lavorando ad un ordine esecutivo con l’obiettivo di avere un ruolo maggiormente preponderante nella legislazione antitrust, demandando maggiori poteri alle agenzie federali. Staremo a vedere, certi comunque che le prossime settimane segneranno un’impronta cruciale sul tema del monopolio delle Big Tech, sempre più al centro dei dibattiti globali.