We Happy Few – Tristezza a palate (recensione)

Giorgio Palmieri
Giorgio Palmieri
We Happy Few – Tristezza a palate (recensione)

Recensione We Happy Few – “Non ricordo più che sapore ha la felicità” cantava Simona Molinari sul palco di Sanremo qualche anno fa, quando bastava un panino e un bicchiere di vino per mettere a tacere la tristezza. Per tutto il resto, c’è la “Gioia” di We Happy Few. Cos'è? Facciamo cantare la nostra recensione.

Editore Gearbox Publishing
Sviluppatore Compulsion Games
Piattaforme PS4, Xbox One, PC Windows
Genere Avventura
Modalità di gioco Singolo giocatore
Lingua Testi in italiano
Prezzo e acquisto 70,98€

Chiamate Albano


Di We Happy Few ve ne parlammo quando ancora era in fase di accesso anticipato, ma da quel giorno è passata un bel po’ d’acqua sotto i ponti. Nato come titolo di sopravvivenza in soggettiva dalla grande enfasi procedurale, la creatura di Compulsion Games ha subito un cambio di rotta verso una progressione narrativa più marcata, studiata per dare valore al grande lavoro di caratterizzazione riservato per il mondo di gioco.

Ciò che fa da sfondo alle vicende, infatti, è un universo assurdo nel quale la Germania ha vinto la Seconda Guerra Mondiale in maniera schiacciante. Per mantenere salde le redini del controllo, e per dimenticare gli orrori delle lotte belliche, i chimici tedeschi hanno inventato una pillola di nome “Gioia”, che, se assunta, altera la percezione del mondo esterno, trasformando morte, distruzione e disgrazie in dolcissimi sorrisi.

Gli effetti collaterali del farmaco sono ovviamente tragici, visto che questo rende le persone facilmente manipolabili, tanto è vero che chi ne fa abitualmente uso è portato ad eliminare chi non ne ingurgita, i cosiddetti “musoni”.

Guarda caso, il protagonista fa parte dei “musoni”: in un momento di lucidità, il buon Arthur si accorgerà che il mondo reale versa in condizioni a dir poco misere, desolanti. I ricordi cominciano a riaffiorare, minuto dopo minuto, e nella sua mente riecheggia ripetutamente suo fratello, ormai disperso. L’obiettivo sarà dunque quello di ritrovarlo, in un viaggio nel quale viene illustrato lo stato pietoso della città inglese di Wellington Wells, ridotta ad un colabrodo di macerie, povertà e gente totalmente fuori di melone.

L’aspetto meglio riuscito della produzione, senza alcun dubbio, risiede proprio nell'universo disegnato da Compulsion Games, che, seppur non troppo originale, riesce a comunicare l’atmosfera distopica e opprimente con la sua scrittura frizzante, densa di filmati e documenti che illustrano le sfaccettature della società di We Happy Few senza ammorbarvi nella prolissità.

L’impressione che la narrazione sia stata aggiunta in un secondo momento c'è, risultando un po’ frammentata alle volte, eppure è innegabile che sia il territorio dove la società canadese esprime davvero se stessa.

D'altronde il gioco, come anticipavamo qualche riga più sopra, sarebbe dovuto essere un titolo di sopravvivenza con livelli procedurali, ma quando è subentrata Gearbox nel progetto, Compulsion Games si è sentita in dovere di rendere giustizia alla storia, motivo per cui tutte le variabili di gestione delle risorse sono state attenuate rispetto alle intenzioni originali. La fame, la sete e il sonno, nella difficoltà standard, comportano solo piccoli malus sopportabilissimi, quasi impercettibili, e quelle stesse mappe casuali, a cui accennavamo poc'anzi, ormai rivestono un ruolo talmente marginale da non essere avvertite.

La giocabilità dunque si configura come il classico videogioco in prima persona in cui l’approccio furtivo viene premiato, ma nulla vi vieta di agire a viso aperto attraverso un sistema di combattimento che si focalizza sulle armi bianche.

Peccato che la formula abbia dentro di sé ingredienti estrapolati di peso da altri esponenti del genere che in passato hanno fatto molto di meglio: l’approccio furtivo è impelagato da un’intelligenza artificiale deficitaria e robotica; le lotte si poggiano su un feedback dei colpi deludente, con collisioni dalla precisione discutibile; la raccolta di risorse risulta ripetitiva e fine a se stessa, tanto-ché rovistare le varie stanze diventa presto un’operazione meccanica: infine, la creazione di oggetti non stimola creatività, e si limita a offrire ricette che esigono un certo quantitativo di risorse e nulla più. È molto timido anche lo sviluppo del personaggio, vincolato all'acquisizione di punti abilità ogni volta che si completa una missione: purtroppo non vi è originalità nelle mosse da imparare, basate più che altro su bonus passivi e pochissimo altro. Quel che ne viene fuori è un minestrone derivativo che desidera tenere due piedi in una scarpa, che si trascina idee da un progetto nato come survival, per poi dirigersi verso altri orizzonti.

Vuole fare tante cose, cerca di farle bene, e l’esito convince solo a metà: le conseguenze di questa confusione le paga la giocabilità, la quale dà il meglio di sé nelle fasi della storia, al chiuso, dove il disegno dei livelli assume una certa coerenza. All'aperto, infatti, We Happy Few si perde, sia per una resa grafica a dir poco mediocre, sia per la già citata intelligenza artificiale nemica, che sembra non essere stata preparata e finalizzata per il mondo esterno.

Anche la struttura delle missioni non brilla in quanto a inventiva: tra scambi di favori, recupero di oggetti e lunghe passeggiate da una meta e l’altra, si respira l’aria di classicità estrema, fortunatamente condita con racconti che vale la pena leggere e ascoltare. Se siete amanti della distopia, la visione di Compulsion Games saprà senz'altro affascinarvi, accompagnata da un gameplay che tende a ingranare col passare delle ore.

Le sorprese non mancano: Arthur infatti non è il solo protagonista dell’avventura, e se ne aggiungeranno altri due, con vicende altrettanto interessanti, per una durata che si attesta tre le quindici e le venti ore complessive. Spiccano armi assurde attraverso le quali sollazzarvi, enigmi ambientali pronti a spezzare la monotonia del ritmo, insomma, piccoli sprazzi gettati nel calderone nella speranza di comporre un mosaico derivativo, raffazzonato, ma divertente e funzionale.

Dal lato visivo, tuttavia, We Happy Few delude le aspettative e non di poco, anche su PS4 Pro: sebbene la direzione artistica che anima l’ambiente sia meravigliosa, il riciclo di pezzi grafici, le apparizioni improvvise di superfici e modelli, la scarsa qualità degli esterni e le animazioni deludenti vanno a sporcare un quadro che meritava più attenzioni. Ottimo invece il doppiaggio, caratterizzato da un gustoso accento inglese, e accompagnato da sottotitoli in italiano che talvolta non riescono a tenere il passo delle voci.

Segnaliamo anche che alcune frasi, inspiegabilmente, non sono state tradotte, cosa che rafforza la teoria secondo la quale il gioco avrebbe beneficiato di un altro rinvio per un'ulteriore rifinitura.

Giudizio Finale

Recensione We Happy Few – Giudizio Finale – Di We Happy Few potreste innamorarvi, ma questo amore potrebbe non essere corrisposto. L’ambientazione è disgraziatamente adorabile, i racconti, l’idea che c’è dietro ha un fascino innegabile, ma il progetto risulta impacciato e informe. Si rifugia in idee derivative che si limitano a fare ciò che possono, e non è abbastanza: non è abbastanza per un universo dall'estro estetico così creativo, così desideroso di essere raccontato.

PRO CONTRO
  • Universo assurdo, instilla curiosità
  • Narrativa interessante
  • Sequenze negli interni ben fatte
  • Poco rifinito in ogni aspetto
  • Meccaniche derivative
  • Grafica altalenante

Recensione We Happy Few – Trailer

Recensione We Happy Few – Screenshot